Lettera di inizio dell’anno pastorale 2019-20

l’occasione di un anniversario

per riprendere il cammino della comunità parrocchiale

– anno 2019/2020 –  

Se guardi il calendario delle attività di una parrocchia la sensazione è che si ripeta tutto in modo pressoché identico. Il ritmo dell’anno liturgico con l’Avvento e poi il Natale, la Quaresima e la Pasqua con il tempo successivo dedicato alla celebrazione dei sacramenti. In mezzo le stesse cose: la celebrazione delle messe, il catechismo, le riunioni dei gruppi. Anche la vita oratoriana non sfugge una sorta di ripetitività che non è noiosa solo perché lì i ragazzi non sono sempre gli stessi. Crescendo lasciano spazio a chi arriva dietro di loro: elementari, medie e poi … finalmente animatori del Cre e gruppo giovani e … la bellezza e la fatica di diventare adulti.

In parte è vero. Il ritmo della vita di una comunità cristiana si appoggia molto sul ripetere quelle esperienza che ne fanno l’ossatura. Ma, viste da dentro, viste da vicino, ti accorgi che niente è mai uguale. Sta continuamente cambiando lo stile con cui viviamo le celebrazioni, sia quelle ordinarie (la messa della domenica e dei giorni feriali), sia quelle del tutto particolari come i funerali e i matrimoni, le prime comunioni e le cresime.

La catechesi, cambiando i protagonisti (famiglie, ragazzi e catechisti), è ogni anno da reinventare e sempre più si rende evidente che le si sta chiedendo troppo e da sola non ce la fa a introdurre alla vita da cristiani. Il ritmo dell’abitudine che fa pensare alla celebrazione della prima comunione e della cresima legata ad una età stabilita rischia di essere più una fregatura che un’opportunità educativa. E ciò non fa bene a nessuno. Né ai ragazzi né alla comunità che dovrebbe accogliere e accompagnare nuovi cristiani.

Cambia il modo di vivere il Cre, di stare da anziani dentro la comunità. Cambia il modo di offrire la disponibilità da parte dei volontari, cambia il modo con cui si possono porre dei segni di carità nella speranza che non si confondano con offerte di servizi ed elemosine. Cambia il modo di parlare, di stare da cristiani dentro la storia, di guardare all’avventura di essere giovani. Cambia il modo con cui guardiamo il limite e la morte.

La lista dei cambiamenti potrebbe proseguire all’infinito. Col rischio però di perdere il filo e di perdere la consapevolezza che in tutto questo turbinio qualcosa resta fermo e capace di indicare una direzione. È la voce del Signore che convoca i suoi attorno a sé e li invia come suoi testimoni. Tutti gli anni allora il tentativo di una comunità è di rimettersi da capo in ascolto di questa voce che, accompagnati dal Risorto, incontriamo nella Scritture e nelle nostre storie.

Da dove partiamo?

A rendere particolare quest’anno per la nostra comunità azzanese c’è un anniversario: la nostra chiesa parrocchiale compie 50 anni. Il 27 maggio 1970 veniva consacrata dal vescovo di Bergamo mons. Clemente Gaddi la nuova chiesa che, su disegno dell’architetto Aldo Piantanida, è stata costruita sul terreno donato, con voto unanime, dall’Amministrazione Comunale.

Ancora, dopo cinquant’anni, diversi di noi dicono che “non è bella”, che “ha poco della chiesa”, … Certo alcune lacune non possono essere nascoste, prima fra tutte la scarsissima qualità acustica, la sua illuminazione è un po’ “da stadio”, è calda d’estate e fredda d’inverno, … ma se con un po’ di pazienza ci mettessimo in ascolto scopriremmo che, con la sua essenzialità e umiltà, è capace di consegnarci qualcosa di importante. Proprio come le case nelle quali siamo nati e cresciuti (anch’esse non sempre rispondenti alle nostre fantasie circa la casa ideale) sanno dire qualcosa di noi, ci restituiscono alcuni tratti di quelle origini che meritano di essere onorate, così sarebbe bello in quest’anno particolare provare ad ascoltare qualcuna tra le parole che da cinquant’anni la nostra chiesa sta provando a suggerire agli azzanesi.

 “c’è posto per tutti”

È la prima sensazione che si ha entrando nella nostra chiesa. La sua ampiezza racconta di uno spazio che smarca da tutte le tentazioni di pensarla come un luogo per pochi eletti o per pochi giusti. È stata costruita da una comunità che riteneva importante rendere la sua chiesa capace di ospitare i cambiamenti di un paese vivo che si stava allargando. Le sue porte sempre aperte raccontano di una soglia bassa: non servono credenziali particolari per poterci entrare.

Certo ciò non significa che voglia consegnarsi come uno spazio neutro, dove possa capitare tutto e il contrario di tutto. Non è la galleria dell’Oriocenter o una piazza del paese. Ci accoglie uno spazio organizzato, illuminato da una luce che cade dall’alto. Quando entri in chiesa non sei investito da una luce da vetrina che toglie ogni mistero. Non sei neppure messo sotto i riflettori di un palcoscenico o … di un tavolo operatorio. Quando entri in chiesa ti abbraccia una penombra che renda possibile sentirti a tuo agio, che ti permetta di fermarti a riprendere fiato e a respirare il mistero del quale è abbracciata la nostra vita. E quando gli occhi si alzano, sopraelevato di qualche gradino, si fa notare l’altare. È lui a connotare questa sala. La tovaglia stesa racconta del desiderio che qui si possa raccogliere una famiglia in festa nella condivisione di Pane e Parole.

Già questa prima sensazione ha tanto da istruire lo stile della comunità che in questa grande casa si riconosce convocata. Come possiamo raccontare che “c’è posto per tutti”? Cosa può aiutare a vincere in noi la paura dell’esclusione? Come allenarci ad uno stile che non esclude ma che prepara accoglienza per chi decide di affacciarsi? Come accompagnare chi vorrebbe provare a sedersi non da “osservatore esterno” ma da “invitato” alla “cena dell’Agnello”?

 “c’è qualcuno che ti viene incontro a braccia aperte”

Non è possibile non notarlo! Una grande figura, a grandi passi, rossa del colore della passione, sfonda la parete dietro l’altare e ti corre incontro. Le sue braccia sono quelle dell’innamorato che aspetta di stringere a sé l’amata. È lo Sposo atteso dall’umanità che, rivestita del bianco dell’abito nuziale, lo sta contemplando a sua volta a braccia aperte. Aperte come quando prega. Aperte perché decisa a lasciarsi abbracciare. Aperte come quando riesce a vincere la tentazione di temerlo, come sta capitando alla figura che resta rannicchiata nell’ombra.

“Colui che viene” è l’Uomo dalle mani segnate dai chiodi dalla Croce che ha aperto questo meraviglioso cielo blu attraversato dall’arcobaleno, segno prezioso dell’alleanza promessa. “Colui che viene” è accompagnato dal suono squillante della tromba suonata da una angelo dai capelli d’oro che annuncia la festa dell’avverarsi del sogno di Dio. Sogno inaugurato nel giardino della creazione. Giardino che finalmente fiorisce in tutta la sua bellezza ospitando la Pasqua di questo abbraccio capace di abbattere anche quel muro di cemento armato che è la morte.

Non capita spesso nelle chiese di trovare un’immagine così forte. Siamo più abituati a veder rappresentata la gloria di un santo o uno dei momenti della storia di Maria. Qui invece un’immagine ci invita a riconoscere che chi è rappresentato sono proprio io con la mia umanità. Se ci pensi gli occhi vedono ciò che capita quando celebriamo la messa: mentre facciamo memoria della sua morte e risurrezione, il Signore vuole aprire le nostre storie alla “attesa della sua venuta”. È di questo futuro che è diventato povero il nostro mondo. È quel futuro che accolto, ci autorizza a vivere in modo diverso tutto ciò che ci sta capitando. È quel futuro che sa offrire al nostro oggi la sua giusta misura. È quel futuro che non ha nulla a che fare con il fato, il karma o la fortuna perché si realizza in un incontro, in un abbraccio.

Sarebbe bello in quest’anno confrontarci su cosa significhi diventare comunità capace di alzare lo sguardo oltre l’orizzonte ristretto dei nostri bisogni e delle nostre piccole certezze. Diventare comunità capace di raccontare, mentre camminiamo in compagnia con tutti gli uomini che ci è dato di incontrare, proprio del cuore dello Sposo e, così facendo, scoprire che i nostri piedi diventeranno “rossi” come i suoi perché provano a battere i sentieri che lui ha percorso cercando i fratelli. Diventare comunità capace di scommettere concretamente e non solo a parole, sul futuro dei nostri figli, del nostro oratorio, del nostro paese proprio perché continua a celebrare già ora, anche quando resta un piccolo gruppo, con lo stile di una festa che è per tutti.

In conclusione allora … tanti auguri!!!

Probabilmente sarebbero tante altre le parole che la nostra chiesa potrebbe consegnarci. Ci auguriamo allora di provare in quest’anno a diventare ascoltatori più attenti di quelle voci che normalmente rischiamo di ignorare perché le diamo per scontate o perché il rumore di fondo della nostra vita le copre sempre. Un ascolto del genere renderà più facile e più ricco anche il dialogo tra noi.

Buon cammino!

Azzano San Paolo, 15 settembre 2019

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